lunedì 14 ottobre 2024

Perché i buoni soffrono se c’è una provvidenza? – Seneca, De providentia, II, 10-11; VI,

 10. ‘Licet' inquit ‘omnia in unius dicionem concesserint, custodiantur legionibus terrae, classibus maria, Caesarianus portas miles obsideat, Cato qua exeat habet: una manu latam libertati uiam faciet. Ferrum istud, etiam ciuili bello purum et innoxium, bonas tandem ac nobiles edet operas: libertatem quam patriae non potuit Catoni dabit.

 «10. ‘E sia,’ disse, ‘tutti i poteri siano andati a finire sotto il controllo di uno solo, le terre siano presidiate dalle legioni, i mari dalle flotte, un soldato di Cesare assedi le porte, Catone ha una via d’uscita: con una sola mano aprirà la strada alla libertà. Questa spada, puro e inncente anche nella guerra civile, darà alla luce alla fine buone e nobili azioni: darà a Catone la libertà che non poté dare alla patria».

 Aggredere, anime, diu meditatum opus, eripe te rebus humanis. Iam Petreius et Iuba concucurrerunt iacentque alter alterius manu caesi, fortis et egregia fati conuentio, sed quae non deceat magnitudinem nostram: tam turpe est Catoni mortem ab ullo petere quam uitam.’

 «Intraprendi, animo, l’opera a lungo meditata, strappa te stesso alle vicende umane. Già Petreio e Giuba si sono scontrati e giacciono uccisi uno per mano dell’altro, patto di morte coraggioso e senza pari, ma che non si addice alla nostra grandezza: Per Catone è vergognoso chiedere a qualcun altro tanto la morte quanto la vita’».

 11. Liquet mihi cum magno spectasse gaudio deos, dum ille uir, acerrimus sui uindex, alienae saluti consulit et instruit discedentium fugam, dum studia etiam nocte ultima tractat, dum gladium sacro pectori infigit, dum uiscera spargit et illam sanctissimam animam indignamque quae ferro contaminaretur manu educit.

 «Non ho dubbi che gli dèi abbiano guardato con grande gioia, mentre quell’eroe, rigorosissimo vendicatore di se stesso, provvede alla salvezza degli altri e organizza la fuga di chi si rinuncia a combattere, mentre si dedica allo studio1 anche nell’ultima notte, mentre pianta la spada nel sacro petto, mentre sparge le viscere e con la mano tira fuori quell’anima santissima e indegna di essere contaminata dal ferro2».


 Più avanti descrive così i falsi felici:


 VI

 4. Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit.

 «4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».

 Questa idea piace a Seneca, che la declina con la metafora teatrale in Epistulae, 80: 5.

 Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.

 «5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».

 8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.

 «8. La felicità di tutti costoro è una maschera3. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti».

 Il concetto è che non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua4, «Non solo agli uomini ma anche alle cose bisogna levare la maschera e restituire il loro aspetto autentico» (Epistulae, 24, 13).

 1 Si tratta del Fedone platonico, che tratta dell’immortalità dell’anima. Lo sappiamo da 68, 2: κατακλιθεὶς ἔλαβεν εἰς χεῖρας τῶν Πλάτωνος διαλόγων τὸν περὶ ψυχῆς, «prese tra le mani quello sull’anima dei dialoghi di Platone».

 2 In Epistulae, 24, 8 descrive così l’ultimo gesto: nudas in vulnus manus egit et generosum illum contemptoremque omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit, «mise le mani nude nella ferita e quello spirito nobile e sprezzante di ogni potenza non lo lasciò andare ma lo cacciò fuori». Così Plutarco, Vita di Catone, 70, 10: dopo essersi inferto il colpo sviene e i medici tentano sistemare le viscere uscite e lo ricuciono; ὡς οὖν ἀνήνεγκεν ὁ Κάτων καὶ συνεφρόνησε, τὸν μὲν ἰατρὸν ἀπεώσατο, ταῖς χερσὶ δὲ τὰ ἔντερα σπαράξας καὶ τὸ τραῦμ' ἐπαναρρήξας, ἀπέθανεν, «come dunque rinvenne Catone e riprese lucidità, cacciò via il medico, poi lacerandosi con le mani le viscere e squarciando di nuovo la ferita morì».

 3 Lo stesso concetto si trova in De providentia, VI, 4: Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit, «4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».
 
Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenzatutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioialo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

 4 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 55-58: quo magis in dubiis hominem spectare periclis / convenit / adversisque in rebus noscere qui sit; / nam verae voces tum demum pectore ab imo / eliciuntur [et] eripitur persona manet res., «A maggior ragione è necessario osservare luomo nei dubbiosi / pericoli e conoscere chi sia nelle avversità; infatti allora infine le vere voci dal profondo del cuore / erompono e viene strappata la maschera, rimane lessenza».

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