Siamo nel 406 a.C.; si è appena svolta la battaglia delle Arginuse, combattuta in mare tra le flotte Ateniese e Peloponnesiaca, vinta dagli Ateniesi. È un momento cruciale: è l’ultima possibilità che Atene ha prima della disfatta che giungerà l’anno successivo nella sconfitta a Egospotami, dove va perduta l’intera flotta e vengono decise le sorti della guerra a favore di Sparta. La vittoria delle Arginuse dunque rappresenta per Atene la speranza di rovesciare l’andamento negativo che la guerra aveva preso dopo la disfatta della spedizione in Sicilia.
Così Senofonte, nelle Elleniche, ci racconta quello che è successo in seguito.
Il fatto è che subito dopo la vittoria, a causa di una tempesta, molti naufraghi erano morti e gli strateghi vincitori, al ritorno in patria, furono accusati di tradimento per non averli salvati. Essi naturalmente addussero la motivazione della tempesta, ma l’ecclesia, il parlamento ateniese, decise comunque di processarli. Si decise di fare una sola votazione, senza cioè distinguere le responsabilità individuali, ma giudicando sommariamente tutti insieme, procedura illegale allora come oggi. A questo punto prese la parola Eurittolemo insieme ad altri obiettando che era necessario rispettare la legge che appunto imponeva di giudicare singolarmente gli strateghi e che quindi la procedura era illegale; succede allora, ed è qui il punto cruciale, che τοῦ δὲ δήμου ἔνιοι ταῦτα ἐπῄνουν, τὸ δὲ πλῆθος ἐβόα δεινὸν εἶναι εἰ μή τις ἐάσει τὸν δῆμον πράττειν ὃ ἂν [13] βούληται, «alcuni del popolo approvavano queste obiezioni, mentre la massa gridava che era terribile se uno non permetteva al popolo di fare ciò che voleva» (Elleniche, I, 7, 12). La commissione dei pritani, spaventata dal popolo che voleva processare anche si fosse opposto al processo secondo quella procedura, diede l’approvazione con un solo voto contrario, quello di Socrate, che si trovava in quel momento a far parte dei pritani.
Dunque si svolge il processo e alla fine prevale la modalità di votazione sommaria; gli strateghi vincitori vengono condannati a morte e Atene l’anno dopo perde la guerra, l’egemonia e la democrazia, sperimentando il regime sanguinario dei trenta tiranni.
Forse Polibio, analizzando il ciclo delle costituzioni, aveva in mente situazioni come queste quando dice (Storie, VI, 4) che non possiamo chiamare δημοκρατίαν, ἐν ᾗ πᾶν πλῆθος κύριόν ἐστι ποιεῖν ὅ, τι ποτ' ἂν αὐτὸ βουληθῇ, «democrazia quella in cui la massa è padrona di fare proprio tutto ciò che vuole» (4-5), ma quella in cui siano rispettate le tradizioni, si ubbidisce alle leggi (νόμοις πείθεσθαι) e ὅταν τὸ τοῖς πλείοσι δόξαν νικᾷ, «quando vince ciò che sembra giusto alla maggioranza» (5).
La maggioranza dunque ha diritto di prevalere nelle decisioni, ma non sulle leggi e neanche sulle tradizioni. Chi sovverte le tradizioni patrie è il tiranno; cosi Erodoto, per bocca di Otane, (III, 80) nel dibattito costituzionale: νόμαιά τε κινέει πάτρια καὶ βιᾶται γυναῖκας κτείνει τε ἀκρίτους, «sovverte le tradizioni patrie e violenta le donne e uccide senza processo».
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