domenica 6 ottobre 2024

Lasciare la vita con gratitudine – Omero, Virgilio e Euripide – 2° parte


 Vediamo i versi di Omero a cui allude il filosofo tedesco. Si tratta del canto VIII dell’Odissea, vv. 461-468:

«χαῖρε, ξεῖν’, ἵνα καί ποτ’ ἐὼν ἐν πατρίδι γαίηι

μνήσῃ ἐμεῖ’, ὅτι μοι πρώτῃ ζωάγρι’ ὀφέλλεις.»

τὴν δ’ ἀπαμειβόμενος προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·

«Ναυσικάα, θύγατερ μεγαλήτορος Ἀλκινόοιο,

οὕτω νῦν Ζεὺς θείη, ἐρίγδουπος πόσις Ἥρης,

οἴκαδέ τ’ ἐλθέμεναι καὶ νόστιμον ἦμαρ ἰδέσθαι·

τώ κέν τοι καὶ κεῖθι θεῷ ὣς εὐχετοῴμην

αἰεὶ ἤματα πάντα· σὺ γάρ μ’ ἐβιώσαο, κούρη.»            vv. 461-468

«Sii felice, straniero, affinché anche quando un giorno tu sia nella terra dei padri / ti ricordi di me, perché a me per prima tu devi la vita». Rispondendole disse l’accorto Odisseo: «Nausicaa, figlia del magnanimo Alcinoo, / così ora stabilisca Zeus, il tonante sposo di Era, / che arrivi a casa e veda il giorno del ritorno; / così anche là possa io fare voti a te come a una dea / sempre ogni giorno: tu infatti mi hai salvato la vita, fanciulla».


 Preciso che Odisseo non ha in alcun modo approfittato dell’amore di Nausicaa. Viceversa, la gratitudine non è il forte di Enea, il quale ha invece abbondantemente goduto dei favori e delle grazie di Didone innamorata; vediamo come risponde alla regina di Cartagine che lo implora di non lasciarla, ricordandogli il soccorso dopo il naufragio (non ignara mali miseris succurrere disco, «non ignara del male imparo a soccorrere i miseri», Eneide, I, 630) e gli impegni da lui presi:

pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto

speravi (ne finge) fugam, nec coniugis umquam

praetendi taedas aut haec in foedera veni.                           337-339

«Sulla questione dirò poche cose. Né io ho sperato di nascondere /questa fuga (non crederlo) né mai ho proteso le fiaccole / dello sposo o sono giunto a questi patti».

me si fata meis paterentur ducere vitam

auspiciis et sponte mea componere curas,

urbem Troianam primum dulcisque meorum

reliquias colerem, Priami tecta alta manerent,

et recidiva manu posuissem Pergama victis.                        340-344

«Se i fati1 mi lasciassero condurre la vita secondo i miei / desideri e ricomporre gli affanni secondo la mia volontà, / innanzitutto abiterei la città di Troia e venererei le dolci / reliquie dei miei, alto rimarrebbe il palazzo di Priamo / e avrei ricostruito per i vinti Pergamo caduta due volte».

sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo,               

Italiam Lyciae iussere capessere sortes;

hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces

Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,

quae tandem Ausonia Teucros considere terra

invidia est? et nos fas extera quaerere regna.                      345-350

«Ma ora Apollo Grineo mi ha ordinato, / le sorti della Licia mi hanno ordinato di raggiungere l'Italia, la grande Italia; / qui è l'amore, qui la patria. «Se le rocche di Cartagine / e la vista di una città libica trattengono te Fenicia, / che invidia hai che dei Troiani si stabiliscano infine in terra ausonia? / È destino che anche noi cerchiamo regni in terra straniera».

me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris

nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt,

admonet in somnis et turbida terret imago;

me puer Ascanius capitisque iniuria cari,

quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis.                351-355

«L'immagine del padre Anchise mi ammonisce nei sogni e con aria fosca mi atterrisce, / tutte le volte che la notte con umide ombre copre le terre, / tutte le volte che sorgono gli astri infuocati; / mi ammonisce il fanciullo Ascanio e l'offesa del suo caro capo, / che defraudo del regno d'Esperia e dei campi fatali».

nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso

(testor utrumque caput) celeris mandata per auras

detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi

intrantem muros vocemque his auribus hausi.

desine meque tuis incendere teque querelis;

Italiam non sponte sequor.'                                                   356-361

«Adesso anche il messaggero degli dèi, mandato dallo stesso Giove / (lo giuro su entrambe le teste) mi ha riferito gli ordini per l'aria veloce; / io stesso ho visto il dio penetrare nella chiara luce / i muri e ne ho raccolto la voce con queste orecchie. / Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia».

 Dopo la furiosa reazione di Didone non dice nulla e non la rivedrà mai più, se non da morta.

 Concludo questa digressione con il prototipo di tutti gli opportunisti2, il Giasone della Medea di Euripide, a sua volta il prototipo di tutte le donne abbandonate: Giasone, in effetti, si comporta anche peggio; infatti a Medea, che gli ricorda tutto quello che ha fatto per lui, tradendo patria e famiglia e commettendo crimini orrendi, risponde (vv. 526-28, 530-31):

ἐγὼ δ᾽, ἐπειδὴ καὶ λίαν πυργοῖς χάριν,

Κύπριν νομίζω τῆς ἐμῆς ναυκληρίας

σώτειραν εἶναι θεῶν τε κἀνθρώπων μόνην.

...

ὡς Ἔρως σ᾽ ἠνάγκασεν

τόξοις ἀφύκτοις τοὐμὸν ἐκσῶσαι δέμας

«Io, siccome esageri anche troppo il merito, penso che Cipride sola tra dèi e uomini sia la salvatrice della spedizione Eros ti ha costretto a salvare il mio corpo con frecce invincibili».

 1 Dunque sono i Fata che obbligano Enea. Fatum è connesso etimologicamente col verbo for, faris, fatus sum, fari = dire, è ciò che dicono gli dèi; dalla stessa radice deriva anche fas, ciò che è sacro agli dèi. Interessante è la differenza tra fas e mos; il mos è una legge che nasce dal consenso, di cui non ha bisogno il fas, che è una legge che si impone da sola. Per evidenziare tale differenza è utile una domanda di un legato, Bleso, a dei soldati che minacciavano una rivolta (Tacito, Annales, I, 19, 3) Cur contra more obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur? «Perché volgere l'animo alla violenza contro l'usanza dell'ossequio e la sacra legge della disciplina?». / 

 2 Così parla dell’ingratitudine Teognide, Silloge (105-112): Δειλοὺς εὖ ἕρδοντι ματαιοτάτη χάρις ἐστίν· / ἶσον καὶ σπείρειν πόντον ἁλὸς πολιῆς. / οὔτε γὰρ ἂν πόντον σπείρων βαθὺ λήιον ἀμῶις, / οὔτε κακοὺς εὖ δρῶν εὖ πάλιν ἀντιλάβοις· / ἄπληστον γὰρ ἔχουσι κακοὶ νόον· ἢν δ' ἓν ἁμάρτηις, / ῶν πρόσθεν πάντων ἐκκέχυται φιλότης· / οἱ δ' ἀγαθοὶ τὸ μέγιστον ἐπαυρίσκουσι παθόντες, / μνῆμα δ' ἔχουσ' ἀγαθῶν καὶ χάριν ἐξοπίσω. «E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili: / è come seminare la superficie del mare canuto. / Infatti seminando il mare non mieti folta messe, / né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne del bene in cambio: / ché i malvagi hanno mente insaziabile; se tu fallisci, / l’affetto per tutti i favori di prima si versa per terra. I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono (οἱ ἀγαθοὶ τὸ μέγιστον ἐπαύρισκουσι παθόντες), / e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito».

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