martedì 8 ottobre 2024

Il mito di Prometeo – Platone, Protagora, 320c-322d – 2° parte

Per approfondimenti sul rapporto tra sapere e sapienza rimando all’articolo che ho scritto sulla rivista «Altri territori».



 ἅτε δὴ οὖν οὐ πάνυ τι σοφὸς ὢν ὁ Ἐπιμηθεὺς ἔλαθεν αὑτὸν [c] καταναλώσας τὰς δυνάμεις εἰς τὰ ἄλογα· λοιπὸν δὴ ἀκόσμητον ἔτι αὐτῷ ἦν τὸ ἀνθρώπων γένος, καὶ ἠπόρει ὅτι χρήσαιτο.

 «Siccome dunque Epimeteo non era proprio del tutto sapiente, non si accorse di aver consumato le capacità per gli esseri irrazionali; quindi la stirpe umana rimaneva priva di doti, e non sapeva come regolarsi».

 ἀποροῦντι δὲ αὐτῷ ἔρχεται Προμηθεὺς ἐπισκεψόμενος τὴν νομήν, καὶ ὁρᾷ τὰ μὲν ἄλλα ζῷα ἐμμελῶς πάντων ἔχοντα, τὸν δὲ ἄνθρωπον γυμνόν τε καὶ ἀνυπόδητον καὶ ἄστρωτον καὶ ἄοπλον· ἤδη δὲ καὶ ἡ εἱμαρμένη ἡμέρα παρῆν, ἐν ᾗ ἔδει καὶ ἄνθρωπον ἐξιέναι ἐκ γῆς εἰς φῶς.

 «Mentre era nell’incertezza va da lui Prometeo per sovrintendere alla distribuzione, e vede gli altri esseri viventi armoniosamente in possesso di tutte le doti, l’essere umano invece nudo e scalzo e privo di coperte e inerme: per giunta era ormai presente il giorno destinato, in cui doveva anche l’uomo uscire dalla terra alla luce».

 ἀπορίᾳ οὖν σχόμενος ὁ Προμηθεὺς ἥντινα σωτηρίαν τῷ ἀνθρώπῳ εὕροι, [d] κλέπτει Ἡφαίστου καὶ Ἀθηνᾶς τὴν ἔντεχνον σοφίαν σὺν πυρί ‑ ἀμήχανον γὰρ ἦν ἄνευ πυρὸς αὐτὴν κτητήν τῳ ἢ χρησίμην γενέσθαι ‑ καὶ οὕτω δὴ δωρεῖται ἀνθρώπῳ. τὴν μὲν οὖν περὶ τὸν βίον σοφίαν ἄνθρωπος ταύτῃ ἔσχεν, τὴν δὲ πολιτικὴν οὐκ εἶχεν· ἦν γὰρ παρὰ τῷ Διί.

 «Prometeo allora, in preda al dubbio e non sapendo quale salvezza trovare per l’uomo, ruba la sapienza insita nella tecnica di Efesto e di Atena insieme al fuoco – infatti era impossibile, senza fuoco, che quella fosse acquisibile da qualcuno o utile – e così ne fa dono all’uomo. Dunque l’uomo ebbe con questa la sapienza intorno alla conservazione della vita, ma non ebbe quella politica: era infatti presso Zeus».

 La sapienza tecnica è la stessa di cui parla Sofocle nell’Antigone:

πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀν-

θρώπου δεινότερον πέλει

«molte sono le cose inquietanti e nulla è più inquietante delluomo», così esordisce il coro nel primo stasimo dell’Antigone (vv. 332-333); prosegue quindi con una rassegna dei principali ritrovati della tecnica per poi aggiungere:

σοφόν τι τὸ μηχανόεν

τέχνας ὑπὲρ ἐλπίδ᾽ ἔχων

τοτὲ μὲν κακόν, ἄλλοτ᾽ ἐπ᾽ ἐσθλὸν ἕρπει,

νόμους περαίνων χθονὸς

θεῶν τ᾽ ἔνορκον δίκαν,

ὑψίπολις: ἄπολις ὅτῳ τὸ μὴ καλὸν

ξύνεστι τόλμας χάριν.

«possedendo il ritrovato della tecnica / che è una forma di sapere, oltre l'aspettativa, / si volge a volte al male, a volte al bene, / attuando le leggi della terra / e la giustizia giurata degli dèi, / è alto nella città: fuori dalla città / quello con cui non conviva il bello, / per laudacia».

 Nonostante Platone sia il primo censore del teatro1, su questo punto si può dire che sia in piena sintonia con i tre tragediografi. Infatti troviamo una condanna molto simile in due dialoghi2 importanti: Fedro, 275a-b (il mito di Theuth) come qui nel Protagora, 320c-322d (il mito di Prometeo).

 Nel «mito di Theuth» viene in particolare messa in risalto la distinzione tra tecnica e morale; Theuth è il corrispondente egizio di Prometeo, la divinità benefattrice dellumanità. Un giorno va dal faraone Tamus per esporgli tutte le sue invenzioni, tra cui spiccano le lettere, individuate come μνήμης τε καὶ σοφίας φάρμακον, «farmaco della memoria e della sapienza» (274e); segue la risposta del faraone:

ὦ τεχνικώτατε Θεύθ, ἄλλος μὲν τεκεῖν δυνατὸς τὰ τέχνης, ἄλλος δὲ κρῖναι τίν᾽ ἔχει μοῖραν βλάβης τε καὶ ὠφελίας τοῖς μέλλουσι χρῆσθαι· καὶ νῦν σύ, πατὴρ ὢν γραμμάτων, δι᾽ εὔνοιαν τοὐναντίον εἶπες ἢ δύναται. τοῦτο γὰρ τῶν μαθόντων λήθην μὲν ἐν ψυχαῖς παρέξει μνήμης ἀμελετησίᾳ, ἅτε διὰ πίστιν γραφῆς ἔξωθεν ὑπ᾽ ἀλλοτρίων τύπων, οὐκ ἔνδοθεν αὐτοὺς ὑφ᾽ αὑτῶν ἀναμιμνῃσκομένους· οὔκουν μνήμης ἀλλὰ ὑπομνήσεως φάρμακον ηὗρες. σοφίας δὲ τοῖς μαθηταῖς δόξαν, οὐκ ἀλήθειαν πορίζεις· πολυήκοοι γάρ σοι γενόμενοι ἄνευ διδαχῆς πολυγνώμονες εἶναι δόξουσιν, ἀγνώμονες ὡς ἐπὶ τὸ πλῆθος ὄντες, καὶ χαλεποὶ συνεῖναι, δοξόσοφοι γεγονότες ἀντὶ σοφῶν. 
«O tecnicissimo Theuth, uno è capace di partorire i ritrovati della tecnica, un altro di giudicare quale parte di danno e di vantaggio hanno per coloro che hanno intenzione di usarli: e ora tu, siccome sei il padre delle lettere, per benevolenza hai detto il contrario di quello che possono fare. Questo sapere infatti procurerà oblio nelle anime di chi apprende per trascuratezza della memoria, in quanto per fede nella scrittura richiamano alla memoria da fuori a partire da modelli esterni, non dallinterno essi stessi da sé stessi3; hai trovato un farmaco non certo della memoria ma del ricordo. Tu procuri ai discepoli lopinione della sapienza, non la verità: divenuti tuoi assidui ascoltatori penseranno di essere, senza insegnamento, molto colti, essendo invece per lo più ignoranti, e difficili da frequentare, divenuti apparentemente sapienti, anziché sapienti».

  Nel Fedro dunque la distinzione avviene sul piano morale, come qui nel Protagora.


 1 In Repubblica 475d Platone contrappone agli spettacoli del teatro quello della verità: egli biasima quanti tra gli amanti degli spettacoli (οἵ τε φιλοθεάμονες) e delle audizioni (οἵ τε φιλήκοοι) ἀτοπώτατοί τινές εἰσιν ὥς γ' ἐν φιλοσόφοις τιθέναι, «sono certo ben strani da porre tra i filosofi», tutte persone che invece che partecipare a discorsi razionali ὥσπερ δὲ ἀπομεμισθωκότες τὰ ὦτα ἐπακοῦσαι πάντων χορῶν περιθέουσι τοῖς Διονυσίοις οὔτε τῶν κατὰ πόλεις οὔτε τῶν κατὰ κώμας ἀπολειπόμενοι, «come se avessero dato in affitto le orecchie, corrono ad ascoltare tutti i cori alle Dionisie senza tralasciare né quelle di città né quelle dei villaggi»; lo spettacolo della verità che è invece quello amano i filosofi (τοὺς τῆς ἀληθείας φιλοθεάμονας, 475e). In Leggi (701a) se la prende con lo strapotere dei teatri: τὰ θέατρα ἐξ ἀφώνων φωνήεντ' ἐγένοντο, ὡς ἐπαΐοντα ἐν μούσαις τό τε καλὸν καὶ μή, καὶ ἀντὶ ἀριστοκρατίας ἐν αὐτῇ θεατροκρατία τις πονηρὰ γέγονεν, «i teatri da silenziosi sono diventati risonanti di voci, come se comprendessero ciò che è bello e ciò che non lo è nelle opere poetiche, si è prodotta al posto di un’aristocrazia del gusto una maligna teatrocrazia».

2 «Il dialogo platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature» (Nietzsche, La nascita della tragedia, 14).

3 È la famosa condanna della scrittura associata alla dottrina della conoscenza in quanto reminiscenza formulata in Menone, 81b-c: Socrate sta spiegando a Menone che, essendo lanima immortale, nasciamo più volte e quindi impariamo tutto nel corso delle varie vite; ἅτε γὰρ τῆς φύσεως ἁπάσης συγγενοῦς οὔσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα, οὐδὲν κωλύει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μάθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ᾖ καὶ μὴ ἀποκάμνῃ ζητῶν· τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν, «siccome infatti la natura è tutta imparentata con se stessa e lanima ha appreso tutto, nulla impedisce che ricordando una sola cosa, ciò che gli uomini appunto chiamano apprendimento, riscopra tutte le altre cose, qualora sia un uomo di valore e non si stanchi di cercare; infatti il cercare e lapprendere sono nel complesso reminiscenza».
 A questa idea si può contrapporre quanto dice Schopenhauer (Parerga e paralipomena II, Capitolo ventitreesimo, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, 289a: «Quanto grandi e degni di ammirazione sono stati quei primi spiriti del genere umano i qualiinventarono la più meravigliosa delle opere darte, la grammatica della linguatutto questo nella nobile intenzione di avere un organo materiale adeguato e sufficiente per la piena e degna espressione del pensiero umano».

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