venerdì 4 ottobre 2024

L’amore è uguale per tutti – Virgilio, Georgiche, III, vv. 209-283 – introduzione – 2° parte


 Torniamo a Virgilio. Abbiamo visto il lessico, ora guardiamo le situazioni.

 Nelle Bucoliche abbiamo quasi sempre amori che fanno soffrire.

 Nella II c’è il lamento di Coridone per Alessi che non lo ricambia; alla fine dell’ecloga rivolgendosi a se stesso dice (v.69): a, Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!, «Ah Coridone, Coridone, che pazzia si è impossessata di te!».

 Nella III, in un canto amebeo che caratterizza laa seconda parte, così si esprime Dameta (v. 101): idem amor exitium pecori pecorisque magistro, «uguale è l’amore, un flagello per il gregge e la guida del gregge». Qui abbiamo l’equiparazione dell’uomo e dell’animale come vedremo nelle Georgiche.

 Nella VI ci sono amori mostruosi, innaturali, cosa che non impedisce la compassione per i personaggi, come per esempio Pasifae alla quale si rivolge con un’apostrofe, sul modello dell’Ecloga II, che inizia così (v. 47): A! uirgo infelix, quae te dementia cepit!, «Ah sventurata fanciulla, che pazzia si è impossessata di te!».

 Nella X c’è l’amore infelice dell’amico e poeta Cornelio Gallo che tenta vanamente di consolare: Omnia uincit Amor: et nos cedamus Amori, «L’Amore vince tutto: e noi cediamo all’Amore».


 Nelle Georgiche c’è un caso in cui l’amore ha una connotazione non negativa: si tratta delle api, la cui riproduzione era all’epoca ritenuta asessuata (IV, vv. 197-199): Illum adeo placuisse apibus mirabere morem, / quod neque concubitu indulgent nec corpora segnes / in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt, «Davvero ti stupirai che sia gradito alle api quel costume, / per cui né si abbandonano all’amplesso né i corpi pigramente / dissolvono in Venere o partoriscono la prole nelle doglie». Qui non si rappresenta un amore felice ma chi è felice perché non ha bisogno dell’amore. Alla fine poi c’è l’epillio di Orfeo ed Euridice il cui l’amore di Orfeo è fortissimo, ma non tanto da vincere se sstesso, poiché (v. 488) subita incautum dementia cepit amantem, «un’improvvisa follia si impossesò dell’incauto amante», che si volta violando la condizione posta da Proserpina. Ecco che l’amore di Orfeo diventa furor nelle ultime parole di Euridice (vv. 494-495): Quis et me, inquit, miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?, «Quale follia così grande, disse, / ha perduto e me misera e te, Orfeo, quale?». Anche qui l’amore è furor, come per Gallo e Didone.


Vediamo l’Eneide. Più di tutto è significativa la vicenda di Didone, che è furens (o aggettivi della famiglia) per sette volte e si comporta come una baccante (vv. 300-303): saevit inops animi totamque incensa per urbem, / bacchatur, qualis commotis excita sacris / Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho / orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron, «infuria priva di senno e infiammata per tutta la città / baccheggia, eccitata dai riti risvegliati come / una Tiade, quando udito Bacco la stimolano le orge / triennali e la chiama con grida il notturno Citerone». Bisogna specificare che la connotazione negativa, soprattutto sessualmente, dei baccanali caratterizza prettamente il mondo romano: è del 186 a.C. il senatusconsultum de Bacchanalibus. Come è evidenziato nel modo più incontrovertibile invece nelle Baccanti di Euripide, nel mondo greco questo aspetto è del tutto assente: c’è una prima insinuazione malevola di Penteo (vv. 217-225):

γυναῖκας ἡμῖν δώματ' ἐκλελοιπέναι

πλασταῖσι βακχείαισιν, ἐν δὲ δασκίοις

ὄρεσι θοάζειν, τὸν νεωστὶ δαίμονα

Διόνυσον, ὅστις ἔστι, τιμώσας χοροῖς,

πλήρεις δὲ θιάσοις ἐν μέσοισιν ἱστάναι

κρατῆρας, ἄλλην δ' ἄλλοσ' εἰς ἐρημίαν

πτώσσουσαν εὐναῖς ἀρσένων ὑπηρετεῖν,

πρόφασιν μὲν ὡς δὴ μαινάδας θυοσκόους,

τὴν δ' Ἀφροδίτην πρόσθ' ἄγειν τοῦ Βακχίου.

«che le donne ci hanno abbandonato le case / per baccanali simulati, e che si precipitano / su monti ombrosi, onorando con danze / la divinità recente, Dioniso, chiunque sia, / che pieni stanno in mezzo ai tiasi / i crateri, e che una qua una andando a nascondersi / in un luogo appartato prestano servizio ai letti dei maschi, / con il pretesto che sono menadi addette ai sacrifici, / solo che mettono Afrodite davanti a Bacco».

 Più avanti però verrà completamente smentito da un pastore che di ritorno dal pascolo riferisce quanto ha osservato di ciò che fanno le menadi sul Citerone (vv. 677-689):

ἀγελαῖα μὲν βοσκήματ᾽ ἄρτι πρὸς λέπας

μόσχων ὑπεξήκριζον, ἡνίχ᾽ ἥλιος

ἀκτῖνας ἐξίησι θερμαίνων χθόνα.

ὁρῶ δὲ θιάσους τρεῖς γυναικείων χορῶν,

ὧν ἦρχ᾽ ἑνὸς μὲν Αὐτονόη, τοῦ δευτέρου

μήτηρ Ἀγαύη σή, τρίτου δ᾽ Ἰνὼ χοροῦ.

ηὗδον δὲ πᾶσαι σώμασιν παρειμέναι,

αἳ μὲν πρὸς ἐλάτης νῶτ᾽ ἐρείσασαι φόβην,

αἳ δ᾽ ἐν δρυὸς φύλλοισι πρὸς πέδῳ κάρα

εἰκῇ βαλοῦσαι σωφρόνως, οὐχ ὡς σὺ φῂς

ᾠνωμένας κρατῆρι καὶ λωτοῦ ψόφῳ

θηρᾶν καθ᾽ ὕλην Κύπριν ἠρημωμένας.

«Io conducevo poco fa in alto al pascolo le mandrie dei buoi verso la rupe, quando il sole emette i raggi riscaldando la terra. E vedo tre tiasi di cori femminili, tra i quali uno lo guidava Autonoe, il secondo tua madre Agave, il terzo coro Ino. Dormivano tutte con i corpi rilassati, alcune avendo appoggiato la schiena alla chioma di un abete, altre avendo messo a caso il capo a terra sulle foglie di una quercia, castamente, non come dici tu, cioè che in preda al vino con coppe e a suon di flauto andassero a cacci di Cipride per il bosco, appartate».

 Didone però non è solo una folle baccante, addirittura ancor prima di rendersi conto di essersi innamorata è (Eneide, I, v. 712) Praecipue infelix, pesti devota futurae, «particolarmente infelice, consacrata alla peste imminente»; per non parlare della prima volta che fa l’amore con Enea (Eneide, IV, v. 166-172):

prima et Tellus et pronuba Iuno

dant signum; fulsere ignes et conscius aether

conubiis summoque ulularunt vertice Nymphae.

ille dies primus leti primusque malorum

causa fuit; neque enim specie famave movetur

nec iam furtivum Dido meditatur amorem:

coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam.

«Per prima la terra e Giunone pronuba / danno il segnale; sfolgorarono i fuochi e l’etere testimone / dell’unione e dalla sommità del monte ulularono le ninfe. / quel giorno fu il primo della morte e il primo come / causa dei mai; né infatti è influenzata dalle apparenze o dalla fama / né Didone pensa più a un amore furtivo: / matrimonio lo chiama, con questo nome copre la colpa».


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