martedì 8 ottobre 2024

Euripide, Troiane – terzo episodio: vv. 935-961

 

ἃ δ’ εὐτύχησεν Ἑλλάς, ὠλόμην ἐγὼ                                935

εὐμορφίᾳ πραθεῖσα, κὠνειδίζομαι

ἐξ ὧν ἐχρῆν με στέφανον ἐπὶ κάρᾳ λαβεῖν.

οὔπω με φήσεις αὐτὰ τἀν ποσὶν λέγειν,

ὅπως ἀφώρμησ’ ἐκ δόμων τῶν σῶν λάθρα.

Quanto alla fortuna che ebbe la Grecia, io fui rovinata
venduta per la bellezza, e sono oltraggiata
a causa di ciò per cui dovevo ricevere una corona sul capo293031
Tu dirai che io non parlo ancora delle questioni attuali,
di come mi sono lanciata fuori dalla tua casa di nascosto.

ἦλθ’ οὐχὶ μικρὰν θεὸν ἔχων αὑτοῦ μέτα                        940

ὁ τῆσδ’ ἀλάστωρ, εἴτ’ Ἀλέξανδρον θέλεις

ὀνόματι προσφωνεῖν νιν εἴτε καὶ Πάριν·

ὅν, ὦ κάκιστε, σοῖσιν ἐν δόμοις λιπὼν

Σπάρτης ἀπῆρας νηὶ Κρησίαν χθόνα.

Venne avendo con sé una dea non piccola
il demonio partorito da questa, che tu voglia chiamarlo
col nome di Alessandro o anche Paride;
E tu, oh sciagurato, lasciatolo nella tua casa
salpasti da Sparta con una nave verso la terra di Creta.

εἶἑν.

οὐ σέ, ἀλλ’ ἐμαυτὴν τοὐπὶ τῷδ’ ἐρήσομαι·                    945

τί δὴ φρονοῦσά γ’ ἐκ δόμων ἅμ’ ἑσπόμην

ξένῳ, προδοῦσα πατρίδα καὶ δόμους ἐμούς;

E sia!
Non te, ma me stessa interrogherò sulla questione:
orbene, pensando a cosa seguii via da casa
uno straniero, insieme tradendo le patria e la mia famiglia?

τὴν θεὸν κόλαζε καὶ Διὸς κρείσσων γενοῦ,

ὃς τῶν μὲν ἄλλων δαιμόνων ἔχει κράτος,

κείνης δὲ δοῦλός ἐστι· συγγνώμη δ’ ἐμοί.                       950

Punisci la dea e diventa più forte di Zeus,
il quale sulle altre divinità ha il potere,
ma di quella è schiavo: ci sia indulgenza per me32.

ἔνθεν δ’ ἔχοις ἂν εἰς ἔμ’ εὐπρεπῆ λόγον·

ἐπεὶ θανὼν γῆς ἦλθ’ Ἀλέξανδρος μυχούς,

χρῆν μ’, ἡνίκ’ οὐκ ἦν θεοπόνητά μου λέχη,

λιποῦσαν οἴκους ναῦς ἐπ’ Ἀργείων μολεῖν.

Da qui in poi potresti avere verso di me un argomento
plausibile;
dopo che Alessandro morto raggiunse i recessi della terra,
sarebbe stato necessario che io, allorché non c’erano i miei letti peparati dagli dèi,
lasciando il palazzo andassi alle navi degli Argivi.

ἔσπευδον αὐτὸ τοῦτο· μάρτυρες δέ μοι                          955

πύργων πυλωροὶ κἀπὸ τειχέων σκοποί,

οἳ πολλάκις μ’ ἐφηῦρον ἐξ ἐπάλξεων

πλεκταῖσιν ἐς γῆν σῶμα κλέπτουσαν τόδε.

Proprio a questo mi affrettavo: mi sono testimoni
i guardiani delle sorte delle torri e le vedette dalle mura,
che spesso mi sorpresero mentre dai parapetti
con funi verso terra sottraevo questo corpo.

[βίᾳ δ’ ὁ καινός μ’ οὗτος ἁρπάσας πόσις

Δηίφοβος ἄλοχον εἶχεν ἀκόντων Φρυγῶν.]                      960

πῶς οὖν ἔτ’ ἂν θνῄσκοιμ’ ἂν ἐνδίκως, πόσι;

[Ma a forza questo nuovo sposo, Deifobo,
dopo vermi rapito mi teneva come sposa contro il volere dei Frigi.]
Come dunque ancora dovrei morire secondo giustizia, sposo?

 

 29 Questi di Elena si possono in parte considerare dei sofismi, argomentazioni capziose per discolparsi. È su questo genere di monologhi che Nietzsche si basa per formulare a proposito di Euripide la formula-accusa di socratismo estetico (La nascita della tragedia, cap. 12):

«Potremo ormai avvicinarci allessenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un di presso: “Tutto deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al principio socratico: «solo chi sa è virtuoso” […] Come esempio della produttività di quel metodo razionalistico ci può servire il prologo euripideo [] Per Euripide [] leffetto della tragedia era basato [] su quelle grandi scene retorico-liriche, in cui la passione e la dialettica del protagonista si gonfiavano in un fiume largo e potente. La tragedia eschileo-sofoclea impiegava i mezzi artistici più ingegnosi per dare come per caso in mano allo spettatore, nelle prime scene, tutti i fili necessari alla comprensione [] Euripide credette di notare che, durante quelle prime scene, lo spettatore era in particolare agitazione per risolvere il problemino di aritmetica dellantefatto, sicché le bellezze artistiche e il pathos dellesposizione andavano per lui perduti. Perciò pose il prologo [] in bocca a un personaggio in cui si potesse aver fiducia: spesso una divinità doveva [] togliere ogni dubbio sulla realtà del mito [] Della stessa veridicità divina Euripide ha bisogno a chiusura del suo dramma, per assicurare il pubblico circa lavvenire dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina [] Così Euripide è come poeta soprattutto leco delle sue cognizioni coscienti [] Egli deve aver avuto spesso limpressione come di dover far vivere per il dramma linizio dello scritto di Anassagora [al principio tutto era mescolato, poi venne lintelletto e creò ordine”. E se col suo nus Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio fra individui tutti ebbri, anche Euripide può aver concepito con unimmagine simile il suo rapporto con gli altri poeti della tragedia [] Anche il divino Platone parla per lo più solo ironicamente della facoltà creativa del poeta, quando essa non sia una conoscenza consapevole, e la parifica alla dote dellindovino e dellinterprete di sogni [] Euripide si accinse a mostrar al mondo [] lopposto del poeta “irragionevole”; il suo principio estetico “tutto deve essere cosciente per essere bello” è la proposizione parallela al precetto socratico «tutto deve essere cosciente per essere buono”. Per conseguenza Euripide può essere considerato come il poeta del socratismo estetico. Ma Socrate era quel secondo spettatore che non capiva la tragedia antica e perciò non l'apprezzava; in lega con lui Euripide osò essere laraldo di una nuova creazione artistica. Se a causa di essa la tragedia antica perì, il principio micidiale fu dunque il socratismo estetico [] Riconosciamo in Socrate lavversario di Dioniso [] e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio».

 Prosegue nella nota seguente 

 30 L’essenza del socratismo di cui parla Nietzsche si può rintracciare nel Protagoraκαὶ γὰρ ὑμεῖς ὡμολογήκατε ἐπιστήμης ἐνδείᾳ ἐξαμαρτάνειν περὶ τὴν τῶν ἡδονῶν αἵρεσιν καὶ λυπῶν τοὺς ἐξαμαρτάνοντας – ταῦτα δέ ἐστιν ἀγαθά τε καὶ κακά –, «anche voi infatti siete d'accordo che per mancanza di scienza sbagliano coloro che sbagliano riguardo alla scelta dei piaceri e dei dolori – questi sono i beni e i mali » (357d); ἐπί γε τὰ κακὰ οὐδεὶς ἑκὼν ἔρχεται οὐδὲ ἐπὶ ἃ οἴεται κακὰ εἶναι, «nessuno va volontariamente verso i mali, nemmeno verso quelli che crede siano mali» (358d).

 Questa idea di Nietzsche, callida nella sua formulazione, viene però giustamente smontata da Dodds in I Greci e l’irrazionale (cap. VI, Razionalismo e reazione nell’età classica):

«Il mondo demonico si è ritirato, lasciando soli gli uomini con le loro passioni. È questo che rende così dolorosamente commoventi i casi patologici studiati da Euripide; egli ci mostra uomini e donne che affrontano inermi il mistero del male, non piú cosa estranea che aggredisce dall'esterno la loro ragione, ma parte dell'esser loro, ἦθος ἀνθρώπῷ δαίμων [ERACLITO, 119 D-K]. Eppure il male, anche se cessa di essere soprannaturale, non diventa meno misterioso e terrificante. Medea sa di lottare non contro un alastor, ma contro il proprio io irrazionale, il thumos, e domanda pietà a quell'io, come uno schiavo implora il padrone brutale. Invano: gli impulsi dell'azione sono nascosti nel thumos, dove né la ragione né la pietà possono raggiungerli. “So quale malvagità sto per compiere, ma il thumos è piú forte delle mie decisioni; il thumos, radice delle peggiori azioni dell’uomo”. Con queste parole abbandona la scena; quando ritorna, ha condannato i suoi figli a morte e se stessa ad una vita di prevalutata infelicità. Medea infatti non soffre di socratiche “illusioni di prospettiva”; la sua aritmetica morale è senza errori, né commette l'errore di confondere la propria passione con uno spirito maligno. Sta in questo la sua suprema tragicità. Non so se il poeta, scrivendo la Medea, avesse in mente Socrate. Ma un ripudio cosciente della teoria socratica è stato riconosciuto, secondo me con ragione, nelle famose parole che egli pose in bocca a Fedra tre anni più tardi. […] Euripide, nelle sue ultime opere, si preoccupa non tanto dell’importanza della ragione umana, quanto del dubbio più vasto, se sia possibile discernere un qualche fine razionale nell'ordinamento della vita umana… credo ancora che la parola “irrazionalista”, da me un tempo suggerita, sia quella che meglio si addice a Euripide. Euripide dunque, se vedo giusto, riflette non soltanto l'Illuminismo, ma anche la reazione contro l’Illuminismo».

Prosegue nella nota seguente 

 31 I versi della Medea (431 a.C.) a cui allude Dodds sono i 1078-1080: καὶ μανθάνω μὲν οἷα τολμήσω κακά, / θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων, / ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς, «e comprendo quali mali oserò, / ma più forte delle mie riflessioni è la passione, / la quale è causa dei massimi mali per i mortali». Le parole di Fedra sono invece tratte dall’Ippolito (428 a.C.), vv. 380-383: τὰ χρήστ᾽ ἐπιστάμεσθα καὶ γιγνώσκομεν, / οὐκ ἐκπονοῦμεν δ᾽, οἱ μὲν ἀργίας ὕπο, / οἱ δ᾽ ἡδονὴν προθέντες ἀντὶ τοῦ καλοῦ / ἄλλην τιν᾽, «conosciamo il bene e lo comprendiamo, / ma non ci impegniamo a metterlo in pratica, alcuni per pigrizia, / altri preferendo un qualche altro piacere al bello». Già Eraclito aveva detto (85 D-K): θυμῷ μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέλῃ, ψυχῆς ὠνεῖται«combattere con l'animo è arduo: ciò che vuole infatti lo compra a prezzo dell’anima».

 Concludo la riabilitazione di Euripide con Snell (La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Aristofane e l’estetica):

«Euripide porta la coscienza morale a una nuova crisi... Così al posto del conflitto drammatico abbiamo discussioni di uomini per i quali la vita stessa è diventata oggetto di dubbio. E così dalla tragedia si passa al dialogo filosofico-morale. Se la tragedia più tarda porta alla riflessione astrattamente razionale degli oggetti che rappresentava una volta in figure vive, essa non fa che seguire una legge storica dello spirito greco; anche le altre grandi forme di poesia hanno aperto la via all'osservazione scientifica. L'epopea porta alla storia; la poesia teogonia e cosmogonia sfocia nella filosofia naturale ionica che ricerca l'ἀρχή, la ragione e il principio delle cose; dalla poesia lirica si sviluppano i problemi riguardanti lo spirito e il significato delle cose. Così la tragedia preannunzia la filosofia attica, il cui interesse principale è rivolto all'azione umana, al bene. I dialoghi di Platone riprendono le discussioni dei personaggi della tragedia. […] Goethe, che non era animato da nessun risentimento contro lo spirito... si è fortemente adirato che Schlegel... trovasse da ridire contro Euripide. “Un poeta, – diceva a Eckermann – che Aristotele esaltava, Menandro ammirava e alla cui morte Sofocle e l'intera città di Atene vestirono a lutto, doveva pur valere qualcosa. Quando un uomo dei nostri tempi come Schlegel vuole rilevare dei difetti in questo grande dell'antichità, non dovrebbe farlo altrimenti che in ginocchio”. E per finire, riporteremo ancora la parola di Goethe scritta nel suo diario alcuni mesi prima della morte: “Non finisco di meravigliarmi come l’élite dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane... Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?”».

 32 Anche nella Medea viene usata l’argomentazione che Afrodite è più forte di tutto, ma diversamente da qui la usa Giasone per negare a Medea il merito di averlo aiutato (vv. 524-531): ἐγὼ δ', ἐπειδὴ καὶ λίαν πυργοῖς χάριν, / Κύπριν νομίζω τῆς ἐμῆς ναυκληρίας / σώτειραν εἶναι θεῶν τε κἀνθρώπων μόνην. / σοὶ δἔστι μὲν νοῦς λεπτός· ἀλλἐπίφθονος / λόγος διελθεῖν ὡς Ἔρως σἠνάγκασεν. / τόξοις ἀφύκτοις τοὐμὸν ἐκσῶσαι δέμας, «Io, siccome tu esageri anche troppo il merito, / considero che Cipride sola tra dèi e uomini sia / salvatrice della mia impresa navale. / Tu hai una mente sottile; ma è un odioso / discorso spiegare come Eros ti ha costretto / con dardi inevitabili a salvare il mio corpo». Medea nei versi precedenti aveva condannato l’ingratitudine di Giasone con questa amara considerazione (vv. 516-519): ὦ Ζεῦ, τί δὴ χρυσοῦ μὲν ὃς κίβδηλος ἦι / τεκμήρι ἀνθρώποισιν ὤπασας σαφῆ, / ἀνδρῶν δὅτωι χρὴ τὸν κακὸν διειδέναι / οὐδεὶς χαρακτὴρ ἐμπέφυκε σώματι;, «Oh Zeus, perché delloro che sia falso / hai fornito agli esseri umani chiari indizi, / mentre nessun marchio è connaturato al corpo / con cui riconoscere quello malvagio?».

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