Torniamo a Lucrezio, e concludiamo.
Il fatto è che noi ci angustiamo in vita per paura della morte e di quello che seguirà, a causa di tutte le frottole che ci hanno raccontato; tuttavia (III, vv. 978-1023) le pene dell’inferno sono solo superstizione, perché le punizioni dei criminali raccontate nei miti sono in realtà nostre proiezioni nell’oltretomba di situazioni della vita:
Atque ea nimirum quaecumque Acherunte profundo
prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis. vv. 978-1023
«E senza dubbio quei tormenti, di qualunque tipo, che si tramanda / che ci siano nel profondo Acheronte, sono tutti nella nostra vita».
Ne sono esempi Tantalo, che temendo un macigno che incombe sulla sua testa, simboleggia la paura degli dèi da parte dei mortali per le sventure dovute alla sorte. Poi c’è Tizio, divorato dagli uccelli:
Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem
quem volucres lacerant atque exest anxius angor
aut alia quavis scindunt cuppedine curae. vv. 992-994
«Ma Tizio è qui in noi, accasciato in amore / che gli uccelli lacerano e un’ansia angosciosa divora / o gli affanni sbranano con una qualche altra passione».
Sui tormenti d’amore tornerà poi alla fine del IV libro.
Sisifo è un altro esempio:
Sisyphus in vita quoque nobis ante oculos est
qui petere a populo fascis saevasque securis
imbibit et semper vinctus tristisque recedit.
Nam petere imperium quod inanest nec datur umquam,
atque in eo semper durum sufferre laborem,
hoc est adverso nixantem trudere monte
saxum quod tamen ‹e› summo iam vertice rursum
volvitur et plani raptim petit aequora campi. vv. 996-1003
«Anche Sisifo è per noi nella vita davanti agli occhi / colui che si mette in testa di chiedere al popolo i fasci e le scuri crudeli / e sempre vinto e triste si ritira. / Infatti aspirare al potere che è vaano e non viene mai concesso, / e sempre sobbarcarsi in ciò una dura fatica, / questo è spingere su per la salita di un monte / un sasso che comunque dalla sommità del monte ancora una volta / rotola e precipita alle distese dell’aperta piana».
Le Danaidi poi, condannate a rimpire d’acqua un’urna senza fondo1, simboleggiano l’avidità insaziabile, cioè:
animi ingratam naturam pascere semper
atque explere bonis rebus satiareque numquam,
quod faciunt nobis annorum tempora, circum
cum redeunt fetusque ferunt variosque lepores,
nec tamen explemur vitai fructibus umquam, vv. 1003-1007
«pascere sempre l’ingrata natura dell’animo / e riempirla di beni e non saziarla mai, / cosa che fanno per noi le stagioni dell’anno, quando / ritornano ciclicamente e portano i prodotti e le varie piacevolezze, / né tuttavia ci saziamo mai dei frutti della vita».
Infine ci immaginiamo Cerbero, le Furie, il Taartaro e tutti i mostri qui neque sunt usquam nec possunt esse profecto, «i quali né esistono da nessuna paarte né certamente possono esistere» (v. 1013). Quindi prosegue: Sed metus in vita poenarum pro male factis, «Invece è in vita la paura delle punizioni per i misfatti» (v. 1014), perché, anche se riuscissimo a evitare il carcere, le torture e simili,
at mens sibi conscia factis
praemetuens adhibet stimulos torretque flagellis
nec videt interea qui terminus esse malorum vv. 1108-1020
possit.
«ciò non ostante la mente consapevole delle azioni / temendo in anticipo applica a sé gli strazi e brucia alle sferzate / né vede nel frattempo quale termine dei mali / possa esserci»2.
Quindi alla fine dei conti:
Hic Acherusia fit stultorum denique vita.
«Qui [cioè sulla terra] si verifica insomma la vita infernale degli stolti»3.
1 Pertusum vas, come quello del commensale che non si vuole congedare dal banchetto della vita (III, v. 936).
2 Così si era già espresso Esiodo, Opere, 265-266: οἷ αὐτῷ κακὰ τεύχει ἀνὴρ ἄλλῳ κακὰ τεύχων, / ἡ δὲ κακὴ βουλὴ τῷ βουλεύσαντι κακίστη, «prepara i mali per se stesso un uomo che prepara mali per un altro, / e il cattivo consiglio è pessimo per chi l’ha progettato».
Vedi anche Seneca, Epistulae, 81, 19: 19. Omnia facienda sunt ut quam gratissimi simus. Nostrum enim hoc bonum est, quemadmodum iustitia non est (ut vulgo creditur) ad alios pertinens: magna pars eius in se redit. Nemo non, cum alteri prodest, sibi profuit, non eo nomine dico, quod volet adiuvare adiutus, protegere defensus, quod bonum exemplum circuitu ad facientem revertitur (sicut mala exempla recidunt in auctores nec ulla miseratio contingit iis qui patiuntur iniurias quas posse fieri faciendo docuerunt), sed quod virtutum omnium pretium in ipsis est. Non enim exercentur ad praemium: recte facti fecisse merces est, «[19] Bisogna fare tutte le cose per essere il più grati possibile. Questo infatti è un nostro bene, esattamente come la giustizia non riguarda (come comunemente si crede) gli altri: una gran parte di essa ricade su se stessa. Non c’è nessuno che, quando giova all’altro, non ha giovato a se stesso; non dico nel senso che vorrà aiutare perché è stato aiutato, difendere perché difeso, per il fatto che il buon esempio ritorna circolarmente da chi lo ha dato (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori e nessuna commiserazione tocca a coloro che subiscono ingiustizie che, con il loro agire, hanno insegnato che possono accadere), ma per il fatto che il valore di tutte le virtù coincide con le stesse. Non si praticano infatti in vista di un premio: la ricompensa di una cosa ben fatta è averla fatta».
3 Cfr. Virgilio, Georgiche, II, vv. 490-492: felix qui potuit rerum cognoscere causas / atque metus omnis et inexorabile fatum / subiecit pedibus strepitumque Acherontis auari, «fortunato chi poté conoscere le cause delle cose / e tutte le paure e l’inesorabile fato / schiacciò sotto i piedi e lo strepito dell’avido Acheronte».
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