domenica 20 ottobre 2024

Seneca, De ira, II, 28, 1-5

 1. Si uolumus aequi rerum omnium iudices esse, hoc primum nobis persuadeamus, neminem nostrum esse sine culpa; hinc enim maxima indignatio oritur: 'nihil peccaui' et 'nihil feci'. Immo nihil fateris. Indignamur aliqua admonitione aut coercitione nos castigatos, cum illo ipso tempore peccemus, quod adicimus malefactis adrogantiam et contumaciam.

«1. Se vogliamo essere giudici equi di tutte le cose, persuadiamoci innanzitutto di questo, che nessuno di noi è senza colpa; lo sdegno più grande, infatti, nasce da qui: “non ho commesso nessun peccato” e “non ho fatto niente”. Se mai non ammetti niente. Ci sdegniamo per essere stati colpiti da un rimprovero o da un castigo, metre pecchiamo proprio in quel momento, poiché aggiungiamo alle cattive azioni arroganza e ostinazione».

2. Quis est iste qui se profitetur omnibus legibus innocentem? Vt hoc ita sit, quam angusta innocentia est ad legem bonum esse! Quanto latius officiorum patet quam iuris regula! Quam multa pietas humanitas liberalitas iustitia fides exigunt, quae omnia extra publicas tabulas sunt!

«2. Chi è costui che si può proclamare innocente davanti a tutte le leggi? Ammesso le questo stia così, che innocenza limitata è essere buono secondo la legge! Quanto più ampiamente si estende il criterio dei doveri morali di quello del diritto! Quante cose esigono devozione umanità generosità giustizia lealtà, tutte cose che sono al di fuori dei registri ufficiali!».

3. Sed ne ad illam quidem artissimam innocentiae formulam praestare nos possumus: alia fecimus, alia cogitauimus, alia optauimus, aliis fauimus; in quibusdam innocentes sumus, quia non successit.

«3. Ma noi non possiamo conformarci nemmeno a quella formula ristrettissima: alcune cose le abbiamo fatte, altre le abbiamo pensate, altre le abbiamo desiderate, altre ancora favorite; in detrminati casi siamo innocenti, poiché  non è andata a buon fine».

4. Hoc cogitantes aequiores simus delinquentibus, credamus obiurgantibus; utique bonis ne irascamur (cui enim non, si bonis quoque?), minime dis; non enim illorum <uitio>, sed lege mortalitatis patimur quidquid incommodi accidit. 'At morbi doloresque incurrunt.' Vtique aliquo defungendum est domicilium putre sortitis.

«Pensando a ciò cerchiamo di essere più equilibrati con chi sbaglia, fidiamoci dei rimproveri; soprattutto non adiriamoci coi buoni (con chi non dovremmo, se lo facciamo anche coi buoni?), per niente con gli dèi; non infatti per vizio di quelli, ma per legge di mortalità subiamo qualsiasi inconveniente si verifica. “Ma ci assalgono malattie e dolori”. Comunque sia in un qualche modo si deve morire, dato che è capitata in sorte una dimora guasta».

5. Dicetur aliquis male de te locutus: cogita an prior feceris, cogita de quam multis loquaris. Cogitemus, inquam, alios non facere iniuriam sed reponere, alios pro nobis facere, alios coactos facere, alios ignorantes, etiam eos qui uolentes scientesque faciunt ex iniuria nostra non ipsam iniuriam petere: aut dulcedine urbanitatis prolapsus est, aut fecit aliquid, non ut nobis obesset, sed quia consequi ipse non poterat, nisi nos reppulisset; saepe adulatio dum blanditur offendit.

«Si dirà che qualcuno ha parlato male di te: pensa se lo hai fatto tu per primo, pensa di quante persone parli. Pensiamo, dico, che alcuni non commettono ingiustizia ma la ricambiano, altri la commettono in nostro favore, altri la commettono costretti, altri senza saperlo, anche quelli che la commettono volontariamente e consapevolmente non ricercano l’ingiustizia in sé ma la commettono a partire da una nostra ingiustizia: o si è lasciato andare per il piacere di un’arguzia, o ha fatto qualcosa, non per ostacolarci, ma perché lui non era in grado di ottenerla, a meno che ci avesse respinto; spesso l’adulazione mentre accarezza offende».

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