Mito e storia
Tacito, Historiae, II, 50
Siamo nel 69 d.C. e Tacito si appresta a descrivere la battaglia di Bedriaco, dove Otone fu sconfitto da Vitellio, a proposito della quale si narrava di alcuni prodigi avvenuti immediatamente prima.
ut conquirere fabulosa et fictis oblectare legentium animos procul gravitate coepti operis crediderim, ita vulgatis traditisque demere fidem non ausim.
«Come riterrei lontano dalla serietà dell’opera iniziata cercare leggende e dilettare gli animi dei lettore con storie inventate, così non oserei togliere credibilità a tradizioni diffuse».
Tacito dunque non si sente di escludere del tutto l’elemento leggendario dalla storia. Del resto è condivisibile quanto dice Montaigne secondo cui i buoni storici hanno il dovere di tenere
«nota degli avvenimenti importanti: fra i fatti pubblici ci sono anche le voci e le opinioni popolari. È loro compito riferire le credenze comuni, non guidarle. Questa parte tocca ai teologi e ai filosofi direttori delle coscienze. […] E scrivendo [il soggetto è Tacito] in un secolo nel quale la credenza nei prodigi cominciava a diminuire, dice di non voler per questo tralasciar d'inserirli nei suoi annali e di far posto a una cosa accettata da tante persone dabbene e con sì gran rispetto dell'antichità. [B] È assai ben detto. Che ci riferiscano la storia più secondo quello che vengono a sapere che secondo quello che pensano. Io che sono re della materia che tratto e che non ne devo render conto a nessuno, non mi fido tuttavia completamente di me stesso. Arrischio spesso motti di spirito dei quali diffido, e certe finezze verbali di cui non mi curo; ma le lascio correre alla ventura. [c] Vedo che ci si fa vanto di cose del genere. Non spetta a me solo giudicarne. Io mi presento in piedi e a giacere, davanti e di dietro, a destra e a sinistra, e in tutte le mie pieghe naturali. [B] Gli ingegni, anche uguali di forze, non sono sempre uguali nell’esecuzione e nel gusto.» (Saggi, III, 8).
Già Erodoto non aveva escluso le voci riportate, anche se non documentate (VII, 153, 3):
Ἐγὼ δὲ ὀφείλω λέγειν τὰ λεγόμενα, πείθεσθαί γε μὲν οὐ παντάπασιν ὀφείλω (καί μοι τοῦτο τὸ ἔπος ἐχέτω ἐς πάντα τὸν λόγον).
«Io devo dire quello che si dice, ma non devo crederci in tutto (e queste parole valga per ogni discorso)».
Una posizione analoga si trova in Livio (Praefatio):
Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat,
«Le cose che si tramandano prima o nell’imminenza della fondazione della città, ornamenti per favole poetiche più che per monumenti incorrotti di imprese, ebbene tali cose non ho in animo né di confermarle né di rifiutarle».
Sempre Livio (VII, 6, 6) dice: fama rerum standum est, ubi certam derogat vetustas fidem, «bisogna attenersi alle voci sui fatti, quando l’antichità toglie credito certo».
Che nella storia a volte conti di più la narrazione dei fatti che la loro realtà effettiva emerge da un episodio relativo ad Alessandro Magno riportato da Curzio Rufo (VIII, 8, 15): Alessandro ha appena scoperto la congiura dei paggi, che si opponeva all’adozione di costumi stranieri voluta invece da Alessandro; ad Ermolao che gli chiede di rinnegare di essere figlio di Giove come affermato dall’oracolo il Macedone risponde che averlo accettato non ha nuociuto alle loro imprese e quindi:
Vtinam Indi quoque deum esse me credant! fama enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, ueri uicem obtinuit,
«Magari anche gli Indiani credessero che sono figlio di Giove! le guerre infatti sono fatte di propaganda, e spesso ciò che si è creduto a torto, ha ottenuto il posto della verità».
La spedizione in effetti si arrestò al confine con l’India.
Come dirà poi in IX, 1, 34:
Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi,
«certamente trasccrivo più cose di quelle a cui credo: infatti non intendo affermare cose di cui dubito, né tralasciare quelle che ho raccolto».
Diversamente si era regolato Tucidide, in polemica con Erodoto, in due dei capitoli metodologici:
I, 21, 1:
[1] ἐκ δὲ τῶν εἰρημένων τεκμηρίων ὅμως τοιαῦτα ἄν τις νομίζων μάλιστα ἃ διῆλθον οὐχ ἁμαρτάνοι,
«comunque non sbaglierebbe uno che, in base agli indizi detti prima, ritenesse tali al massimo i fatti che ho passato in rassegna,»
καὶ οὔτε ὡς ποιηταὶ ὑμνήκασι περὶ αὐτῶν ἐπὶ τὸ μεῖζον κοσμοῦντες μᾶλλον πιστεύων,
«e che non si fidasse piuttosto di come i poeti hanno inneggiato riguardo a quelli, abbellendoli con l’esagerazione,»
οὔτε ὡς λογογράφοι ξυνέθεσαν ἐπὶ τὸ προσαγωγότερον τῇ ἀκροάσει ἢ ἀληθέστερον,
«né di come li hanno composti i logografi in vista di ciò che è attraente per l’ascolto più che che della verità,»
ὄντα ἀνεξέλεγκτα καὶ τὰ πολλὰ ὑπὸ χρόνου αὐτῶν ἀπίστως ἐπὶ τὸ μυθῶδες ἐκνενικηκότα,
«dato che sono fatti che non si possono provare e la maggior parte di essi, per il tempo passato, hanno prevalso in modo inattendibile verso il carattere mitico,»
I, 22, 4:
καὶ ἐς μὲν ἀκρόασιν ἴσως τὸ μὴ μυθῶδες αὐτῶν ἀτερπέστερον φανεῖται· ὅσοι δὲ βουλήσονται τῶν τε γενομένων τὸ σαφὲς σκοπεῖν καὶ τῶν μελλόντων ποτὲ αὖθις κατὰ τὸ ἀνθρώπινον τοιούτων καὶ παραπλησίων ἔσεσθαι, ὠφέλιμα κρίνειν αὐτὰ ἀρκούντως ἕξει. κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀκούειν ξύγκειται.
«E forse l’elemento non mitico di esse [le sue storie N.d.R.] apparirà all’ascolto meno piacevole; quanti però vorranno considerare la chiarezza stessa dei fatti accaduti e che sono destinati ad accadere ancora una volta siffatti o simili secondo la natura umana, sarà sufficiente che le giudichino utili. Sono composte come un possesso per sempre piuttosto che come un pezzo da competizione da ascoltare sul momento».
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